Tra maggio e giugno verranno somministrate le prove Invalsi
(che sta per Istituto nazionale per la valutazione
del sistema educativo di istruzione e di formazione). Di cosa si tratta?
Da diversi anni gli alunni delle classi II e V della scuola primaria (elementare) e delle classi III della scuola secondaria di primo grado (media) devono partecipare al quizzettone preparato dai sedicenti esperti ministeriali di educazione e valutazione.
I test sono (formalmente) anonimi (con l’eccezione di quelli per la III media che rientrano nell’esame finale) e uguali per tutti. Da quando furono introdotti, i test Invalsi hanno sollevato dubbi e critiche, sia relativamente alla liceità dell’operazione (che potrebbe ledere la libertà di insegnamento e l’autonomia della valutazione), sia, soprattutto, relativamente alla loro sensatezza: come è possibile, si chiedono gli scettici, valutare situazioni diverse con un esame oggettivo che non legge le condizioni soggettive, culturali, ambientali, così determinanti nell’esperienza scolastica (soprattutto sul piano performativo)? Com’è possibile, a partire da questi test, valutare la qualità dell’insegnamento senza prendere in considerazione le condizioni in cui questa attività viene praticata? Una scuola abbandonata a sé stessa nella periferia di una grande città (o nella desolazione di una provincia depressa), con insegnanti che cambiano tutti gli anni, con pochi stimoli culturali nei dintorni, offre davvero le stesse opportunità che garantisce una scuola cosiddetta “del centro”, frequentata da bambini appartenenti a classi sociali che possono permettersi di integrare, con extra a pagamento, le carenze della scuola pubblica così pesantemente colpita da tagli di risorse e personale? Un bambino giunto in Italia da pochi mesi e inserito in una seconda elementare, ad esempio, è valutabile con gli stessi criteri oggettivi dei suoi compagni di classe? E se in quella classe ci sono più situazioni simili: l’insegnante che si fa carico del lavoro supplementare per accogliere e integrare le difficoltà è valutabile solo sulla base della conoscenza del “programma” che i suoi alunni dimostrano attraverso i test Invalsi? E tutto ciò che i test non indagano né misurano: davvero non vale nulla?
Da diversi anni gli alunni delle classi II e V della scuola primaria (elementare) e delle classi III della scuola secondaria di primo grado (media) devono partecipare al quizzettone preparato dai sedicenti esperti ministeriali di educazione e valutazione.
I test sono (formalmente) anonimi (con l’eccezione di quelli per la III media che rientrano nell’esame finale) e uguali per tutti. Da quando furono introdotti, i test Invalsi hanno sollevato dubbi e critiche, sia relativamente alla liceità dell’operazione (che potrebbe ledere la libertà di insegnamento e l’autonomia della valutazione), sia, soprattutto, relativamente alla loro sensatezza: come è possibile, si chiedono gli scettici, valutare situazioni diverse con un esame oggettivo che non legge le condizioni soggettive, culturali, ambientali, così determinanti nell’esperienza scolastica (soprattutto sul piano performativo)? Com’è possibile, a partire da questi test, valutare la qualità dell’insegnamento senza prendere in considerazione le condizioni in cui questa attività viene praticata? Una scuola abbandonata a sé stessa nella periferia di una grande città (o nella desolazione di una provincia depressa), con insegnanti che cambiano tutti gli anni, con pochi stimoli culturali nei dintorni, offre davvero le stesse opportunità che garantisce una scuola cosiddetta “del centro”, frequentata da bambini appartenenti a classi sociali che possono permettersi di integrare, con extra a pagamento, le carenze della scuola pubblica così pesantemente colpita da tagli di risorse e personale? Un bambino giunto in Italia da pochi mesi e inserito in una seconda elementare, ad esempio, è valutabile con gli stessi criteri oggettivi dei suoi compagni di classe? E se in quella classe ci sono più situazioni simili: l’insegnante che si fa carico del lavoro supplementare per accogliere e integrare le difficoltà è valutabile solo sulla base della conoscenza del “programma” che i suoi alunni dimostrano attraverso i test Invalsi? E tutto ciò che i test non indagano né misurano: davvero non vale nulla?
Comunque la pensiate, questo post vuole segnalarvi un “gioco
serio” proposto da un Comitato genitori e insegnanti per la scuola pubblica: “Si
parla tanto di quiz Invalsi – scrivono nelle pagine del blog La scuola è nostra! Miglioriamola insieme – ma pochi sanno cosa siano esattamente e soprattutto
come siano strutturati questi test a crocetta. A eccezione dei bambini
sottoposti alla prova e dei docenti che l’hanno somministrata, nessuno li ha
mai visti”. Da qui la proposta: rispondere alle domande contenute nel
fascicolo invalsi dello scorso anno e inviarle poi al comitato che intende
provare a valutare “il rapporto tra la natura delle prove, il sistema di
valutazione, e le finalità politico-ideologiche che con esso si vogliono perseguire”.
Un test empirico interessante. Le regole del gioco le trovate qui. Buona fortuna!
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